La storia – L’albero del Rockefeller di New York parla irpino, da 89 anni

“Prima di andare a casa, potremmo fare una cosa”.
“Che cosa?”.
Mettiamo un bell’albero al centro della piazza e decoriamolo con quello che abbiamo. Poi andremo dalle nostre famiglie a festeggiare il Natale e, al nostro ritorno, l’albero sarà ancora qui”.
“Ma non abbiamo niente! Abbiamo solo delle latte vuote di vernice, un po’ di carta stagnola, qualche corda e un po’ di lacci”.
“Andranno benissimo”.
“Verrà uno schifo, non lo guarderà nessuno e faremo pure una pessima figura”.
“Verrà bellissimo, e ne parleranno tutti”.

Con il senno del poi, in questo dialogo che effettivamente avvenne, la sera del 24 dicembre del 1931 sulla piazza centrale di quello che sarebbe diventato il Rockefeller Center di New York, ci fu un gruppo di persone che aveva ragione e un gruppo di persone che, invece, si stava sbagliando. Perché quell’albero di Natale, nato così per caso, il momento prima di tornare nelle proprie abitazioni e dalle rispettive famiglie, è diventato il più iconico, il più fotografato, il più visitato del mondo.
Da 89 anni a questa parte.

Si erano parlati in italiano. Anzi, si erano parlati in dialetto campano, quegli operai che, giunti in città stipati e stivati sulle terze classi dei transatlantici, avevano trovato lavoro presso il cantiere di quello che stava per diventare il centro direzionale più importante d’America.

Si erano parlati in campano perché, per la maggior parte, arrivavano da Avellino e un po’ da tutta l’Irpinia. Loro amavano il Natale, amavano il focolaio, amavano le loro tradizioni, anche perché era l’unico periodo dell’anno in cui potevano trascorrere qualche giornata in più insieme ai loro cari, che la vita del cantiere era dura, il pericolo era sempre dietro l’angolo, i pranzi e gli spuntini in alta quota, con le gambe a penzoloni sulle putrelle a loro volta penzolanti sul nulla erano all’ordine del giorno.

Fu al capo cantiere, un muratore di Avellino con le mani grandi come badili e il cuore ancora più grande delle mani che venne in mente di portare in mezzo alla piazza un abete. Spazzarono la zona, la ripulirono per il meglio che potevano, ritardarono quella sera il rientro a casa perché dovevano finire un lavoro che, per loro, e in quel momento, era ancora più importante dei grattacieli stessi.
Il loro albero di Natale.

Si scaldarono con il sudore, e bevendo vino rosso e cioccolata calda. Issarono l’abete e poi, montando sulle scale dai quattro lati, iniziarono a decorarlo. Ma non avevano ghirlande, non avevano palline, non avevano festoni, né stelle, né puntali, né lucine.

Usarono quello che trovarono e così appesero ai rami i secchi vuoti di vernice, le corde delle impalcature e degli imbragaggi che diventarono dei fiocchetti, e la stagnola con cui fasciavano l’esplosivo per sbancare i terreni fu buona per creare qualcosa di luccicoso, nel riflesso delle mille luci circostanti.

Fecero un albero di cuore e d’amore, semplicemente per dire che c’erano. Che non erano solo quelli del cemento, ma che erano soprattutto quelli del sentimento, e che erano grati a quell’America che stava dando loro la grande occasione.

In più, quel 24 dicembre del 1931 si dà il caso che fosse anche il giorno di paga. Così al loro responsabile venne in mente di premiarli sotto al loro albero. Posò una cassetta di legno lì vicino, prese la borsa con i soldi, il brogliaccio con i conti annotati scrupolosamente a mano, con tutti i loro nomi e cognomi, li mise in fila indiana e iniziò a ricompensarli uno per uno. Per il loro lavoro e, come extra, anche per quel fantastico gesto.

Se oggi al Rockefeller Center brilla un albero che più brillante non c’è, anche in tempo di pandemia, è semplicemente perché una vigilia di Natale di tanti anni fa un gruppo di operai di Avellino decise che era troppo presto per andare a casa, che a quella piazza mancava qualcosa, che il creare con le mani non era solo seguire un progetto e le indicazioni di un architetto, ma anche lasciare una traccia concreta del loro passaggio, della loro fantasia, del loro infinito amore.

Per questo l’albero del Rockefeller parla e parlerà sempre italiano. Con l’accento irpino.

Elena Picciocchi

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