Valle Caudina, piazza di spaccio gestita da donne: la Procura chiede il processo

Tribunali

La Procura chiede il processo per gli indagati, tre delle quali donne coinvolte nel blitz eseguito dagli agenti Squadra Mobile che a dicembre aveva portato a sgominare una piazza di spaccio attiva a San Martino Valle Caudina.

 

Il pm della Procura di Avellino Luigi Iglio ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti degli indagati, che sarà discussa il prossimo 27 maggio davanti al Gup del Tribunale di Avellino Gennaro Lezzi.Ora i difensori, gli avvocati Vito Pacca, Fabio Russo, Valeria Verrusio e Stefano Alessandrelli, dovranno discutere davanti al Gup sulle richieste di rinvio a giudizio nei confronti dei loro assistiti.

 

LE INDAGINI E IL BLITZ

Tutto ha avuto inizio a seguito di un movimento anomalo di persone in alcune zone di San Martino Valle Caudina, che ha destato il sospetto degli investigatori. Un traffico continuo e ininterrotto di clienti, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata, ha portato la Squadra Mobile di Avellino a concentrarsi su un’abitazione, che sembrava essere il centro nevralgico di un traffico di sostanze stupefacenti. L’operazione è partita nell’autunno del 2023, quando sono stati effettuati i primi sequestri di droga, e ha proseguito con un’intensa attività investigativa che ha portato alla disarticolazione del sistema.

Il punto di distribuzione, apparentemente nascosto dietro una facciata di normalità, era in realtà un fiorente mercato di cocaina e hashish. La gestione del traffico coinvolgeva principalmente due donne – madre e figlia – legate a un noto boss della zona, anche se non sono emerse prove sufficienti per contestare l’associazione mafiosa. Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile e coordinate dalla Procura di Avellino, hanno messo in luce un traffico esteso e ben strutturato.

Per raccogliere prove decisivi, gli agenti della Squadra Mobile misero in atto una serie di misure di sorveglianza avanzate. Oltre a installare telecamere di sorveglianza intorno all’abitazione sotto osservazione, gli investigatori hanno intercettato le comunicazioni telefoniche degli indagati, scoprendo come questi utilizzassero un linguaggio criptato per eludere i controlli. Termini apparentemente innocui come “giubbini” o “caffè” venivano usati per riferirsi alla droga, un chiaro tentativo di mascherare le attività illecite.

 

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